Ti aspetterò. Anche se dovessero passare mesi, anni, secoli… attenderò il tuo arrivo proprio qui, dove ci siamo conosciuti. Su questo ponte, ormai qualche tempo fa, ho incrociato il tuo riflesso nell’acqua, mentre con i gomiti stavo appoggiato sul suo corrimano , come adesso. Il tuo riflesso si confondeva con le ninfee in fiore. Non sapevo che volto avessi, o che vestito indossassi ma, ricordo distintamente un cappello a tesa larga, con un bel nastro rosso.

Mi voltai e lì vidi il tuo viso di sfuggita, fugace e misterioso. Non so nemmeno io perché ti rivolsi un timido “ciao”, forse perché sentii una specie di connessione o, magari, avevo solo bisogno di un contatto umano. E tu ti girasti. Eri bellissima. I tuoi occhi verdi risplendevano al sole e i capelli color rame ondeggiavano al vento. Mi hai sorriso, alzando timidamente la mano. Rapito da quello strano incantesimo, complice l’aria primaverile, mi avvicinai un po’di più e ti chiesi il nome. Non me lo dicesti, ma continuasti a ridere.
Neanche io ti dissi il mio, curioso di vedere dove questo gioco di sguardi e segreti sarebbe andato a parare. Parlammo del più e del meno, del tempo e di come questo posto donasse una felicità effimera, che avremmo voluto durasse per sempre.
Poi, all’improvviso, una lacrima ti rigò la guancia, silenziosa e solitaria. Nemmeno te ne accorgesti, continuasti a parlare imperterrita del tuo gatto, raccontandomi delle sue mille marachelle in giro per l’appartamento. Io però me ne resi conto e, con un rapido gesto del dito, ti asciugai delicatamente, prendendomi una libertà che tu, probabilmente, non ti aspettavi da un perfetto sconosciuto incontrato su un ponte giapponese, fra le ninfee in fiore.
Era come se quella piccola goccia d’acqua contenesse un dolore profondo, enorme, incapace di stare rinchiuso nel tuo cuore. Al mio gesto, non mi respinsi, anzi mi sfiorasti delicatamente la mano, abbassando lo sguardo, imbarazzata. Ti sollevai il mento con la punta delle dita e vidi i tuoi occhi lucidi, pieni di un pianto che stava per scoppiare da un momento all’altro.
Mi baciasti, lasciandomi senza parole. Potevo sentire le tue labbra calde avvolgermi dolcemente mentre, con una mano, mi accarezzavi la schiena. Rimasi imbambolato per mezzo secondo, prima di sfiorarti delicatamente la spalla, la stoffa morbida sotto alle mie dita.
Non so quanto durò, di certo mi sembrò che passasse un’eternità. Il bacio più dolce e bello della mia vita era appena concluso e mi accorsi solo dopo esserci allontanati del tuo pianto, quasi di liberazione. Ridevi, piangevi, in balìa delle emozioni. Il mio cuore batteva all’impazzata ed ero incapace di parlare, stregato completamente da quello che era appena successo. Mi sfiorasti la guancia con le tue dita affusolate per poi avvicinarti all’orecchio e sussurrarmi parole che ancora ricordo con esattezza:
«Aspettami. Un giorno, a quest’ora precisa, io tornerò da te e ti rivelerò il mio nome. Ma, adesso, non mi sento ancora pronta, ci sono un paio di cose che devo sistemare. Ti prometto che arriverò se avrai pazienza di aspettarmi. E allora ci potremmo cominciare ad amare come due persone normali». E poi corse via, il ticchettio dei tacchi sul legno.
E quindi, ogni giorno, alla stessa ora, vengo qui, su questo ponte giapponese. Me ne sto per un po’ a guardare l’acqua, le ninfee che si muovono, sperando di vedere, riflesso come una visione, quel cappello a tesa larga con il nastro rosso.
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