
Acquaviva era una fata dell’acqua. La sua pelle perlacea creava un delizioso contrasto con i suoi folti capelli azzurri, che ondeggiavano nella mite brezza. I suoi occhi grigi, come l’acqua inquieta, erano sempre puntati verso un punto lontano, e le piaceva passare le ore seduta sulla riva di un ruscello a scrutare l’orizzonte. Il suo compito era quello di vegliare sui fiumi, sui laghi, sui piccoli torrenti di quella zona. La sua regina era stata molto chiara, doveva assicurarsi che l’acqua fosse sana e, soprattutto, non doveva farsi vedere. Gli umani, da sempre, si interessavano alle fate e cercavano in tutti i modi di catturarle. Acquaviva era attratta da quegli esseri strani, giganti, incapaci di volare, e spesso si andava a cacciare in situazioni pericolose. Riusciva sempre a scamparla, in qualche modo, ma era comunque un atteggiamento incosciente, così le aveva detto la sua sovrana. Così, quel giorno di settembre, la fata promise a sé stessa che avrebbe eseguito il suo compito senza distrazioni. Aveva ricevuto un incarico nuovo, prestare soccorso ad un fiumiciattolo che si trovava in quella campagna, vicino alla colonia. Avrebbe dovuto curarlo fino a che non fosse tornato a scorrere, impresa non da poco. Era una specie di prova di iniziazione, perché se l’avesse superata sarebbe finalmente diventata una fata guardiana, in grado di donare la vita a ciò che più non esisteva. Non tutte riuscivano nell’intento, ma lei era sicura di farcela. Acquaviva spiccò il volo con grazia, impaziente di cominciare questa nuova avventura. Arrivò al luogo prestabilito e sentì intorno a sé un’energia strana, malata. Vide il solco vuoto, senza più acqua… sentiva la terra gridare aiuto. Si concentrò con tutte le sue forze, era determinata a riuscire nel suo compito. Tese la piccola mano verso quella che sembrava la sorgente, e indirizzò tutto il suo potere in quel punto, lampi blu percorrevano le sue dita. Non sapeva quanto tempo fosse rimasta lì, la sua testa era come persa nell’infinito. Pensava all’acqua, alla sua potenza maestosa, ma niente. Quel suolo restava immobile, senza vita. Un rumore le rimbombò nella testa, non riuscendo più a controllare la sua magia. Una mietitrebbia si era pericolosamente avvicinata, rompendo il silenzio di quella campagna. Irritata da quel frastuono, Acquaviva decise di andarsene, per il momento… avrebbe ripreso il suo lavoro più tardi. Pensieri di sconforto le attraversavano la testa. Pensava fosse stato più facile, di essere abbastanza potente da riuscire a far rivivere quel fiume. Con la mente persa fra le sue congetture, si ritrovò, senza accorgersene, davanti a una piccola casa, immersa nel verde. Per fortuna non si era allontanata troppo, riusciva ancora a scorgere quell’infernale macchinario agricolo. Spinta dalla curiosità, decise di andare a sbirciare cosa facevano gli umani lì dentro, buttando alle ortiche la promessa fatta poche ore prima. Il suo sguardo scrutò una piccola finestra aperta, da cui proveniva una dolce nenia. Le grandi ali fremevano e, senza pensarci, si fece guidare verso quella melodia. Una volta arrivata non poté credere ai suoi occhi. Avvolto dalle coperte, e con dei tubi che gli arrivavano fino al naso, stava un ragazzo addormentato. Il respiro era quasi assente, e lei percepii dell’aria fluire dentro quei piccoli condotti. Decise di sedersi sulle lancette di un orologio appoggiato con cura sul comodino, un po’ arrugginite. Sopra vi era disegnato un albero… le piacque molto quell’oggetto singolare. Una volta accomodatasi, si mise ad analizzare l’ambiente. La stanza era piccola e arredata con gusto, un variopinto carillon era posizionato in alto, su una mensola sopra di lei. Le piaceva quella musica, sarebbe stata ore ad ascoltarla. Guardò il ragazzo, che ancora dormiva. I capelli corvini incorniciavano un volto pallido, malato. Rimase assorta per chissà quanto tempo, il cuore le batteva forte. Ad un tratto, con un sussulto, il giovane si svegliò, come appena reduce da un incubo. “Acciderbolina!” esclamò la fatina. Acquaviva tentò di nascondersi dietro l’orologio, ma ormai era stata scoperta. Tentò di scappare, ma fu richiamata dal ragazzo, con una voce debole e gentile. Disse di chiamarsi Eric, che aveva dei problemi di salute e per questo era sempre a letto, senza quasi mai ricevere visite se non dall’infermiera e da sua madre. La fata ascoltava e le si stringeva il cuore. Com’era ingiusto tutto questo, un ragazzo così bello e gentile costretto a vivere attaccato a dei tubi. Decise di fidarsi di quell’umano, e gli andò vicino, la sua piccola mano toccò la fronte di lui. Da quel giorno non si lasciarono più, lei tutti i giorni andava a trovarlo e insieme chiacchieravano di tante cose, lei seduta sulle lancette e lui disteso su quel letto pieno di coperte. Ogni tanto Acquaviva gli faceva degli scherzi, d’altronde si sa, le fate sono dispettose. Si divertiva a passargli un ago di pino lungo il collo e lui rideva, rideva così tanto da tossire. E lei si innamorava ogni giorno di più. Era un amore impossibile, i loro mondi erano troppo diversi. Ma a lei non importava, sapeva che sarebbe guarito al più presto e a quel punto lo avrebbe seguito d’ovunque. La sera, prima di tornare alla colonia, si fermava al fiumiciattolo secco e provava a farlo risorgere, ma per quanti sforzi facesse, sembrava tutto inutile. Nella comunità di fate si sparse la voce della strana relazione fra Acquaviva e il ragazzo umano, destando l’attenzione della regina, preoccupata per la situazione. A nulla servirono gli ammonimenti della sovrana, Acquaviva ogni giorno andava a trovare quel giovane. Fino a che, dopo due mesi, lo vide più pallido del solito, più stanco delle altre volte. Provò in tutti i modi a tirarlo su ma niente, lui continuava a pararle con una voce flebile, quasi come un sussurro:
“Acquaviva, amica mia, sento che il mio tempo sta per finire. Ti ringrazio per questi bei momenti, da che sono nato non ho mai provato così tanta gioia come con te, piccola fatina. Sento che la mia anima sta lasciando questo corpo debole, che ormai sta cedendo alla malattia. Oh, non piangere, non bagnare quegli occhi stupendi. Sto solo andando in un’altra dimensione, dove finalmente non dovrò soffrire ancora… Addio mia cara”.
Chiuse gli occhi, come se si fosse appena addormentato. Il respiro si fece sempre più lento, fino a che Acquaviva non vide più il petto alzarsi. Non poteva crederci, non voleva farlo. Lei, che pensava di poterlo guarire, di poter passare tutto il tempo con lui, era lì che piangeva a dirotto. A nulla servì picchiettarlo con le sue minuscole dita, chiamarlo a gran voce. Il cuore le si strinse e si sentì infinitamente debole. È pericoloso per le fate provare sentimenti umani, sono troppo piccole per riuscire a sopportarle… a volte non ci riescono nemmeno le persone, figurarsi una piccola creatura come Acquaviva. Con le ali che a malapena riuscivano a sbattere si trascinò verso quel torrente, senza vita come ora era il suo amore, il suo Eric. E pianse, pianse quante più lacrime di quelle che poteva produrre. La voce le si strozzava in gola, le mani tiravano i lunghi capelli blu. Sentiva un dolore lancinante al petto, come se da un momento all’altro il suo cuore volesse balzare fuori. Le sue sorelle fate sentirono un’energia mortifera, triste, e in massa la raggiunsero. Anche la sovrana si accodò alle altre creature, ma ormai sapeva che era troppo tardi. Solo in due modi una fata può morire: se qualcuno non crede in lei o se le si spezza il cuore, perché non riesce a sopportarlo. Quando arrivarono in quel punto di massima energia, si accorsero che non c’era più niente da fare. Il corpo di Acquaviva era accasciato al suolo, le ali non avevano più luce, il viso era ancora bagnato dalle lacrime. Le sue sorelle chinarono il capo, in silenzio. Fino a che videro una strana luce azzurra propagarsi dal corpo senza vita della fata. Sentirono il rumore dell’acqua che tornava a scorrere su quella terra arida. La piccola fata si era trasformata nel suo elemento, alla fine era riuscita a creare la vita dalla morte. Il suo spirito allegro, curioso, ora danza fra la corrente di quel piccolo torrente, e le sue sorelle ogni anno, nel giorno della sua morte, la omaggiano con una grande festa, ma cercando di stare alla larga dagli umani. Promisero di non avvicinarsi mai più a loro, di non innamorarsi mai… ma si sa, le promesse delle fate sono così effimere che durano un attimo.
🤩
Bellissimo racconto!
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Grazie! Come ho spiegato sui miei social (rilancio il tuo commento per dirlo qua), questo racconto risale a un anno fa, pubblicato su una mia vecchia pagina. Ogni settimana gli utenti scrivevano delle parole e, con le prime 10, improvvisavo un racconto. Uno di quelli è proprio questo e vorrei proporre alcuni di quelli che mi son piaciuto di più, sperando di poterlo rifare 😀
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Beh, è un ottimo esercizio di scrittura creativa, senza dubbio. E il risultato è ottimo! 🙂
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Infatti, anche se difficile 😅 sono contenta che ti sia piaciuto 😊
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Eh, ci credo! Comunque, se ti andrà di condividere qualche racconto nel mio storysharing… (io lo ripeto, si sa mai! 😀 )
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Certo! Infatti ti ho mandato una mail dove te ne ho mandato un altro di questi ;D
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Good! Più tardi la leggo e poi… beh, se è come al solito, vai tranquilla! 😉
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Ah che belle le promesse delle fate 😀
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Grazie. Già, mi sono emozionata molto scrivendolo. ❤
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l’emozione è passata anche da questa parte 😉
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Grazie, davvero 💜
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💜
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Bellissimo ❤ ❤
Passa nel mio blog se ti va
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Bella, mi piace!!!🧚♀️🧚♂️
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Grazie mille 🙂
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Le fate mi hanno sempre affascinato…
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